Perché, dopo un’esplosione, diventiamo tutti reporter improvvisati: la scienza dietro il nostro bisogno di raccontare
Roma si è svegliata con un boato. Un’esplosione in via dei Gordiani ha colto tutti di sorpresa e, nel giro di pochi minuti, i social media si sono trasformati in un’arena di testimonianze, video, supposizioni – e, naturalmente, fake news. “Sembrava un terremoto”, “Era una bomba”, “No, gas!”, “Anzi, GPL!”. È un copione già visto, e rivela molto su come reagiamo a eventi traumatici e improvvisi. Ma perché sentiamo il bisogno irrefrenabile di raccontare – anche se non sappiamo bene cosa sia successo?
Il cervello umano, la psicologia collettiva e i meccanismi dei social media si intrecciano per spiegare un fenomeno ormai onnipresente: la trasformazione istantanea di chiunque in un “giornalista fai-da-te”.
Il cervello sotto shock: quando la paura prende il controllo
Di fronte a un evento improvviso come un’esplosione, il nostro cervello entra in modalità emergenza. L’amigdala, la parte deputata alla gestione della paura, prende il comando e mette fuori gioco la corteccia prefrontale, ossia quella che gestisce il pensiero logico e razionale. È un sistema disegnato per la sopravvivenza: quando sei davanti a un pericolo, devi reagire rapidamente, non riflettere troppo.
Il rovescio della medaglia? La percezione si distorce. Sentiamo cose che non ci sono, interpretiamo male ciò che vediamo e costruiamo ricordi confusi ma convincenti. Da qui nascono racconti approssimativi – spesso ben lontani dalla realtà.
Dalla confabulazione al caos informativo
In un momento di panico, la mente cerca di dare senso a ciò che accade. E se mancano elementi per completare il quadro, li inventa. È un meccanismo noto come confabulazione: colmare i vuoti della memoria con dettagli plausibili ma non reali. Così esplodono le versioni alternative degli eventi, alimentate da testimonianze che sembrano vere – ma non lo sono.
- “Ho sentito due esplosioni”, quando si trattava solo dell’eco.
- “C’era odore di gas”, anche se nessuno ha effettivamente rilevato alcuna perdita.
- “Gente che scappava ovunque”, anche se le immagini smentiscono.
Il problema? Questi racconti vengono condivisi in massa, trasformandosi in una narrazione dominante che fatica a fare spazio ai fatti reali.
L’istinto sociale di condividere: un retaggio evolutivo
Condividere un’informazione, oggi, è semplice come premere un tasto. Ma il bisogno di comunicare un pericolo ha radici antiche: nei gruppi primitivi, segnalare una minaccia significava proteggere se stessi e la propria comunità. Oggi, non gridi “Attenzione!” nella foresta, ma pubblichi una storia su Instagram o scrivi un tweet.
La neuroscienza ci mostra che questo atto genera gratificazione: si attivano i circuiti della ricompensa. Raccontare equivale a sentirsi utili, riconosciuti, parte di un evento importante. E così, senza rendercene conto, ci trasformiamo in cronisti emotivi, spesso senza aspettare conferme o verifiche.
Social media: la cassa di risonanza dell’emotività
Le piattaforme digitali accelerano tutto. Uno studio del MIT ha dimostrato che le fake news si diffondono più rapidamente rispetto a quelle verificate, soprattutto se sono intrise di emozione. Non conta la veridicità: conta quanto una notizia è in grado di farci arrabbiare, spaventare, empatizzare. Il coinvolgimento emotivo vince sulla precisione.
In una corsa a chi pubblica prima, la fretta batte il fact-checking. E ogni nuovo post alimenta un’eco informativa che, spesso, rende quasi impossibile distinguere ciò che è successo davvero da ciò che sembra essere successo.
Il meccanismo del “testimone auditivo”
Quante volte, dopo un evento, hai letto commenti tipo “Io ero lì! Ho sentito tutto”? In realtà, spesso, le persone non erano presenti, ma sentendo un rumore o leggendo qualcosa online, collegano automaticamente i due fatti. È un processo mentale quasi automatico: se ho sentito un botto e poi leggo di un’esplosione, mi convinco che quei due eventi sono collegati.
La memoria poi fa il resto: aggiusta, rielabora, adatta la nostra esperienza alle informazioni ricevute. E così, chi “ha solo sentito” diventa suo malgrado testimone oculare.
Dottori di tutto, esperti di nulla: l’illusione della competenza
Un altro effetto collaterale dell’infodemia è la nascita degli “esperti dell’ultimo minuto”. Gente che, senza alcuna competenza, si avventura in spiegazioni tecniche su esplosioni, impianti di gas e dinamiche terroristiche. Perché accade? Il cervello mal sopporta l’incertezza. Avere una risposta – qualsiasi risposta – ci fa sentire più tranquilli. Anche se è sbagliata.
Questo fenomeno si chiama overconfidence: la tendenza a sopravvalutare le proprie capacità, soprattutto in ambiti che conosciamo poco. Ed è uno dei principali generatori di disinformazione.
Quando il falso diventa “vero”: l’effetto ripetizione
Una bugia raccontata mille volte diventa verosimile. È l’euristica della disponibilità: se sento la stessa cosa da più fonti, anche non autorevoli, il mio cervello la registra come “probabilmente vera”. E così, l’ipotesi più gettonata – per esempio “esplosione di GPL” – finisce per sedimentarsi nella coscienza collettiva, anche se poi i fatti la smentiscono.
Come difendersi dal contagio della disinformazione
La prima arma è la consapevolezza. Sapere che siamo vulnerabili alla disinformazione ci rende più attenti. Bastano pochi accorgimenti – semplici, ma efficaci – per non farsi travolgere dall’impulso di condividere tutto subito.
- Fermati a riflettere: anche solo 30 secondi di pausa possono fare la differenza.
- Cerca conferme su più fonti: quelle affidabili, ovviamente.
- Non fidarti delle emozioni intense: proprio quando sei più scosso, potresti sbagliare di più.
- Non aver paura di dire “non lo so”: è l’inizio della vera comprensione.
Quando condividere è utile – davvero
Al di là dei rischi, la condivisione può avere anche effetti salvifici. Segnalare un incidente in tempo reale, informare che un’area è pericolosa, chiamare i soccorsi: tutto questo può salvare vite. Il punto è farlo con consapevolezza, distinguendo ciò che si è davvero vissuto da ciò che si ipotizza.
La verità non arriva mai per prima. Serve pazienza, spirito critico, e la volontà di lasciare spazio a chi ha gli strumenti per indagare. Perché raccontare è un diritto, ma farlo bene è una responsabilità. E in un mondo dove tutti parlano, pochi fanno davvero informazione.
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